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Forse dopo averci trascorso l'infanzia, e dopo essere passati per il caos della giungla,
il tuo desiderio ti riporta li, a cercare di ricreare adesso da adulto (ora tocca a te)
ciò che di bello hai visto ericevuto da piccolo.
Allora mi viene in mente la parola comunità. Comunità come opposto di globalizzazione
o industria. Vorrei essere il pescatore del villaggio, e magari anche uno dei musicisti,
e poi vorrei avere una donna da amare, custodire e proteggere nella mia capanna,
figli a cui insegnare la pesca e la vita dei boschi, e un giorno vorrei anche ambire
ad essere uno dei capi, magari uno degli strateghi. La vedo così, estremamente semplice,
ma serena, e in qualche modo sento che questo non è poi così lontano o irrealizzabile se lo voglio.
Ho avuto esperienza di comunità da giovane ed è stato bello. Nelle comunità ognuno è qualcuno, perché ha un ruolo, è utile, da e riceve, ognuno serve,
ognuno è servito, ognuno ascolta, ognuno parla, da, accoglie.
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Nel mondo delle multinazionali e del consumismo invece mi sento solo un numero, mi sento intercambiabile e sterile, uguale a mille altri, sono incasellato in un maledetto Curriculum Vitae che in 150 parole parla di me in modo asettico e definito come di altre 10.000 persone che sono addestrate per fare le mie stesse identiche cose. E' disumano, quello li non sono io, quello è il mio vuoto, e poi torno nel mio grattacielo di 100 piani dove sono una finestrella tra le finestrelle tutte uguali.
La globalizzazione, la società unica, la società di massa, dove positivo e negativo non si completano, ma si annullano.
Chi sono io? Si domanda l'uomo omologato
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L'uomo della comunità, del villaggio invece sa bene chi è:
è colui che pesca e porta il pesce al villaggio, ad esempio,
che sa tener in mano una canna e sa insegnare a farlo,
che sa come si muove un pesce e ne conosce la furbizia,
e sa anche di essere molto diverso da suo fratello, che fa il cacciatore,
e più che ambire ad essere come lui, è felice della sua diversità e lo rispetta profondamente.
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